LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO


"TU PUOI SAPERE, SE ABBANDONI L'ERUDIZIONE UMANISTICA"

creata il 2 maggio 2011 aggiornata il 3 agosto 2011

 

 

Tu non sei che una piccola anima che porta un cadavere. Epitteto citato da Maro Aurelio

Parturient montes humanistici, nascetur ridiculus homunculus

*

Vieni da qualche pagina dove si parla di resistenza alla scienza e di volontà di ignoranza. L’umanesimo è una forma di sapere che, sotto il sembiante dell'erudizione, cela efficacemente la volontà d’ignoranza. La psicanalisi opera con e attraverso la volontà d’ignoranza del soggetto, che Freud chiamava resistenza. Allora ha senso porsi la domanda:

La psicanalisi è umanistica?

Credo che la risposta corrente a questa domanda sia sì. Non ho fatto sondaggi in proposito. La mia congettura è di principio. Per principio l’uomo non vuol sapere. Quindi inventa le scienze dell’uomo, cioè l’umanesimo. Allora, la psicanalisi è diventata umanistica con una precisa intenzione: resistere alla scienza che lei stessa è. Lo diceva con altre parole Karl Kraus: “La psicanalisi è la malattia mentale di cui si ritiene la cura”.

Non è un paradosso, ma un dato di fatto. Le scienze umane nascono come espressione di una profonda volontà di ignoranza: si vogliono ignorare le scienze galileiane, contrapposte a quelle baconiane. Perché? Perché le scienze galileiane sono scienze di principio, mentre le scienze baconiane sono puramente empiriche. In quanto scienze di principio – basterebbe il principio di inerzia a qualificarle come tali – le scienze galileiane suscitano l'ostilità del potere e la diffidenza del buon senso. Infatti, dai principi ci si può difendere solo con altri principi, che dal confronto possono uscire invalidati, mentre i fatti restano fatti di fronte a ogni fatto. Da qui i processi a Bruno e a Galilei: processi dalla sentenza prestabilita.
Allora, di fronte alla minaccia di principio, gli incerti e i deboli di spirito si rifugiano nelle scienze umane, che essendo puramente empiriche non promettono patemi d’animo. Si raccolgono dati, testi, sentenze più o meno antiche; si danno interpretazioni e si fanno commenti a testi autorevoli senza rischiare di compromettere l’autorità costituita. La filologia e l’esegesi espongono sì chi le pratica all’eresia, ma è poco male. Con l’eresia si passa da un’ortodossia a un’altra; il principio di autorità non risulta inficiato. Mentre le scienze naturali, essendo congetturali, non riconoscono nessuna autorità. Pericolose, potenzialmente sovversive, in linea di principio anarchiche, sono le scienze della natura. Di fatto, sono solo democratiche; sono deboli come la democrazia, quando non si fanno infinocchiare da qualche arruffapopoli o si svendono per un piatto di lenticchie a qualche multinazionale. Ma non si sa mai. Meglio diffidare di chi non offre garanzie di fatto. Perciò si resiste alle scienze naturali in tanti modi. Per esempio, addirittura con altre scienze: dalle teologiche alle umane, tutto va bene per resistere alla scienza, direi parafrasando Feyerabend. In particolare, per resistere alla psicanalisi gli psicanalisti usano la psicanalisi stessa in qualche versione dottrinaria. Anche in questo caso, tutte vanno bene, dalla prima metapsicologia freudiana all’ultima nannimorettiana, fondata sul difetto di accudimento. (Habemus papam è un film da vedere, più cattivo con la psicanalisi che con la religione.)

Tuttavia, per sviluppare oltre l’affermazione che la psicanalisi è diventata umanistica dovrei definire cosa intendo per umanesimo. Sulla questione si sono versati fiumi di inchiostro e ora, esaurito l’inchiostro, si sta passando agli e-book. C’è l’imbarazzo della scelta. Secondo Heidegger, l’umanesimo è la metafisica dell’ente che dimentica l’essere. Purtroppo, la definizione filosofica è inservibile. Non si può applicare la filosofia alla psicanalisi, perché si può dire tutto il male possibile della psicanalisi, ma non che sia una filosofia, anche se molti filosofi non disdegnano di spacciarsi per psicanalisti (sono i pochi psicanalisti non iscritti all’albo degli psicoterapeuti) e alcuni psicanalisti hanno ricostruito la psicanalisi come sistema filosofico (Lacan tra i migliori).
Allora mi rivolgo agli artisti: Thomas Mann, uno dei miei idoli. “Che cos’è l’umanesimo” è la questione che attraversa tutti i suoi romanzi. Tocca il vertice nella Montagna magica del 1924, da cui stralcio i brani seguenti, tratti dal capitolo intitolato significativamente Humaniora.

«Giusto, giusto! Benissimo, questo è importante. Volevo dire… Cioè, il signor consigliere aulico diceva: “anche un rapporto diverso”. È bene che accanto al rapporto lirico – mi pare che lei si sia espresso così – accanto al rapporto artistico, ve ne sia anche un altro, se le cose, per dirlo in parole povere, si vogliono afferrare da un altro punto di vista, quello medico, per esempio. È una colossale verità – mi scusi signor consigliere aulico – ma credo che sia così straordinariamente giusto perché qui non è questione di differenti rapporti e punti di vista, bensì, per la precisione, di un solo e unico rapporto... e delle sue varietà, intendo dire: sfumature, e cioè: variazioni di un unico e solo interesse generale, del quale anche l’attività artistica è soltanto una parte, un’espressione, se così posso esprimermi. Sì, mi scusi, stacco il quadro dalla parete perché qui non ha proprio luce, lo porto sopra il sofà laggiù e vedrà come sarà diverso... Volevo dire: di che cosa si occupa la scienza medica? Naturalmente io non me ne intendo affatto, ma è chiaro che si occupa dell’essere umano. E la giurisprudenza, la legislazione, il diritto? Essi pure si occupano dell’essere umano. E lo studio del linguaggio, che per lo più è legato all’esercizio della professione pedagogica? E la teologia, la cura delle anime, l’attività pastorale dei sacerdoti? Tutte si occupano dell’essere umano, sono tutte nient’altro che diverse sfumature di un unico, importante... anzi essenziale interesse, l’interesse per l’essere umano, sono, in una parola, professioni umanistiche, e quando vogliamo studiarle dobbiamo imparare prima di tutto, come base, le lingue antiche, non è vero, fondamentali per ogni apprendimento formale, come si usa dire. Lei si stupirà, probabilmente, che io parli in questo modo, io che sono solo un realista, un tecnico. Ci ho riflettuto sopra anche di recente, stando sdraiato: è un’eccellente regola, sa, un’eccellente regola universale quella di porre a fondamento di ogni sorta di professione umanistica l’elemento formale, l’idea della forma, della bella forma... è ciò che conferisce alla cosa un sovrappiù di nobiltà, e inoltre un qualche sentimento e... cortesia.., già solo per questo l’interesse quasi si trasforma in proposito galante... Insomma, con ogni probabilità mi sto esprimendo in maniera inadeguata, ma è proprio qui che si vede come il principio intellettuale e il bello si mescolino, e in verità siano sempre stati una cosa sola, in altre parole: scienza e arte; e si vede, quindi, come l’attività artistica sia anch’essa assolutamente parte di tutto questo, una specie di quinta facoltà, per così dire, e come anch’essa
altro non sia che una professione umanistica, una sfumatura dell’interesse umanistico il quanto il suo tema o il suo intento principale è, di nuovo, l’essere umano, questo me lo deve concedere. Io non ho dipinto nient’altro che barche e acqua quando, in gioventù, mi son
o cimentato in questa direzione, ma l’aspetto più attraente della pittura è e resta, ai miei occhi, il ritratto, avendo esso per suo oggetto immediato l’essere umano, e per questa ragione ho chiesto subito se il signor consigliere aulico si fosse provato anche in quest’ambito… Non starebbe infinitamente meglio se venisse appeso qui?»
I due, sia Behrens che Joachim, lo guardarono in faccia per scoprire se non si vergognasse del che [Hans Castorp] aveva improvvisato lì su due piedi.

(Thomas Mann, La montagna magica (1924), trad. Renata Colorni, Mondadori, Milano 2010, pp. 380-382.)

«Perciò, se si prova interesse per la vita» soggiunse Hans Castorp, «si prova interesse specialmente per la morte. Non è così?»
«Be’, c’è pur sempre una qualche differenza. La vita fa sì che nel ricambio della materia si preservi la forma.»
«E a che scopo preservare la forma» chiese Hans Castorp.
«A che scopo? Ascolti, non c’è proprio più niente di umanistico in quello che sta dicendo.»
«La forma è un’inutile palla al piede.»
«E' chiaro che lei, oggi, ha una vena intraprendente. Sta andando letteralmente sopra le righe. Io invece sto per crollare» disse il consigliere aulico. «Divento malinconico» aggiunse coprendosi gli occhi con la sua mano enorme. (Ivi, p. 391.)

Hm!

Forse neanche Mann aveva le idee chiare sull’umanesimo. Né ci sono di molto aiuto le Considerazioni di un impolitico, invischiate come sono nella questione della responsabilità civile del letterato, in area latina asservito al potere e dedito all’arte per l’arte, mentre in area tedesca… Da conservare è, tuttavia, il riferimento all’elemento formale, inteso come bella forma, ma subito abbandonato. Vengono in mente alcune considerazioni di Lacan sulla forma come Gestalt. Per esempio quelle espresse nel Secondo Seminario:

Il y a deux sens au mot formel. Quand on parle de formalisation mathématique, il s’agit d’un ensemble de convention à partir desquelles vous pouvez développer toute une série de conséquences, de théorèmes qui s’enchaînent, et établissent à l’intérieur d’un ensemble certain rapport de structure, une loi à proprement parler. Au sens gestaltiste du terme, par contre, la forme, la bonne forme, est une totalité, mais réalisée et isolée.
Est ce seconde sens qui est le votre, ou le premier?
C’est le premier, incontestablement. (J. Lacan, Le Séminaire II, 8 décembre 1954)

Allora, prendo il coraggio a due mani e do la mia definizione di “umanesimo”, criticabile finché si vuole, ma applicabile in questo contesto, anche perché permette di distinguere la psicanalisi alla Freud da quella alla Lacan.

L’umanesimo presuppone uno o più piccoli uomini dentro l’uomo.

Chiamalo come vuoi: anima, individuale o collettiva, mortale o immortale; Io-Es-Superio; archetipo, unico o plurimo; si tratta sempre della stessa zuppa:

L’umanesimo è la dottrina dell’homunculus.

L’umanesimo è un capolavoro di rovesciamento autoreferenziale: l’uomo umanista presuppone il piccolo uomo dentro di sé. Attraverso il raddoppiamento metonimico del significante – uomo/omuncolo – l ’umanesimo realizza una simmetria esistenziale. Simmetricamente a come il piccolo uomo – il bambino – presuppone in sé l’uomo grande che diverrà – l’adulto, il grande umanista presuppone nell’uomo un piccolo se stesso, forse il piccolo che la madre ha amato. Difficile uscire da questo doppio legame, starei per dire, materno-fetale. Dovrei, invece, dire fallico-logocentrico, in quanto il piccolo uomo rappresenta il "pezzettino" che manca alla madre e che il piccolo le attribuisce. Non stupisce che questa zuppa sia sminestrata nelle scuole, dove da secoli si devono formare i quadri dirigenti che gestiranno i patrimoni della classe dominante. Attraverso il piccolo uomo dentro l’uomo il potere governa l’uomo. Si giustificano così le ambiguità contro cui si arrovella Mann.

Ma non è tutto. L’omuncolo è solo l’effetto del umanistico. Non è la causa che lo produce, direi l’autore. L’omuncolo è il sintomo dell’umanesimo, non l’eziologia della malattia umanistica. Cosa ci sta a monte dell’opzione umanistica?
Provo a dirlo riferendomi ancora una volta alla Montagna magica e al segreto che cela nella sua miniera. (Domanda di traverso: perché rievocare la magia dei flauti e delle montagne, in un’epoca che, bene o male, si qualifica come scientifica? Anche Mozart fu umanista? Avrei qualche dubbio in proposito.)

La critica più accreditata, in parte debitrice all’estetica dell’allegoria di Benjamin, legge il romanzo della malattia di Hans Castorp, prima latente, poi manifesta, infine…, come allegoria dell’inconscio. La tubercolosi del protagonista è interpretata come la malattia che gli antichi chiamavano melanconia, o malattia dell’atrabile, l’umor nero, secreto dalla milza.
Va ricordata a questo punto una banalità e cioè che la malattia organica è un topos della scrittura di Mann. Si presenta come tifo nei Buddenbrock; colera nella Morte a Venezia; tubercolosi nella Montagna magica; sifilide nel Doktor Faustus. Tuttavia, anche quando queste manifestazioni morbose sono descritte in modo clinicamente irreprensibile, Mann non cade mai nel medico. La malattia è per Mann una metafora dell’esistenza come tante altre, da maneggiare con criteri estetici e non medici.

E mi trattengo dall’affermare che la malattia organica sia per Mann una metafora della malattia mentale, anche se sarei molto tentato di sottoscrivere questa tesi. Infatti, in tal caso a Mann sarebbe riuscito quel che non riuscì a Freud. Il quale, proprio nel suo scritto più polemico contro i medici, La questione dell’analisi laica del 1926 , espone nel modo meno equivocabile possibile la propria concezione medica della malattia mentale, la nevrosi. Si tratterebbe, infatti, di una patologia con una causa che la produce e con una cura che, talvolta, la riduce. L’isteria è prodotta dalle scene sessuali infantili precoci come la tubercolosi è prodotta dal bacillo di Koch – l’analogia è di Freud. Si cura con l’analisi, che rimuove la rimozione infantile della sessualità, come la medicina cura la tubercolosi agendo con antibiotici che rimuovono il bacillo di Koch. L’analisi freudiana è una pratica medica in quanto, come la medicina, produce la restitutio ad integrum, sostituendo dentro l’uomo l’omuncolo ammalato con l'omuncolo di prima della malattia.

Tanto dico per arrivare a una prima conclusione di questo .

Freud è umanista, Lacan no.

Le considerazioni a sostegno di questa tesi sono due e interdipendenti.

Prima considerazione: La psicanalisi di Freud si interessa all’uomo dentro l’uomo. Quella di Lacan si interessa al significante, che è esterno al soggetto parlante. Il bel neologismo inventato da Lacan è extimo, simmetrico di “intimo”. Insomma, Lacan avrà avuto tanti altri difetti: sarà stato logocentrico, fenomenologico, antiscientifico, ma non è mai stato umanista. Non ha mai optato per l’intimità narcisistica dell’umanesimo. Arriva perfino a distinguere il soggetto dell'inconscio dall'Io, considerato come formazione immaginaria. Teniamolo presente, quando critichiamo Lacan. Non dimentichiamo che Lacan ha abbozzato una teoria dell'oggetto. Non lo ha chiamato oggetto infinito, ma oggetto a, un nome algebrico che lascia spazio all'infinito.

Seconda considerazione: Freud privilegia il metodo classico del procedimento umanistico: la ricostruzione storica. Pur lamentando che i propri casi di leggano come novelle e manchino del marchio della scientificità (0), Freud privilegia la diacronia sulla sincronia (v. Contro i casi clinici, A favore dei casi clinici e Gradiva, un passo avanti). Lacan, invece, privilegia la sincronia sulla diacronia. Non scrive casi clinici, a parte l'eccezione del caso Aimée, pubblicato nella tesi di psichiatria. Freud è un romanziere, che meritò giustamente il proemio Goethe. La scrittura di Lacan non è romanzesca ma poetica. I critici la paragonano a quella di Mallarmé.

Ma non sono ancora arrivato a rispondere alla domanda iniziale: la psicanalisi è umanistica? Mi manca l’ultimo passo. Che compio a partire dalla melanconia.

Qui torno al Freud che amo di più, il Freud di uno dei rari momenti in cui si libera, seppure solo in parte, dalla presa della medicina. Mi riferisco a Lutto e melanconia del 1917, dove dà la formula di struttura della melanconia: L’ombra dell’oggetto cadde sull’Io, (1) che da allora per identificazione si trasforma in oggetto da dare in pasto al feroce Super-Io. Come si vede, Freud non rinuncia al linguaggio omuncolare medico-umanistico, però riconosce che qualcosa di rilevante per il soggetto – che chiama Io – avviene fuori dal soggetto: là fuori non c’è più l’oggetto, qui dentro è rimasta l’ombra. L'intuizione freudiana sembra anticipare Lacan: l'Io è solo un'ombra.

Di che oggetto si tratta in psicanalisi?

Si tratta dell’oggetto perduto dall’umanesimo: l’oggetto della scienza, cioè l’infinito.
Ricordo una seconda banalità: scienza e umanesimo escono dalla stessa incubatrice. Sono il frutto dell’autunno del Medioevo, come lo chiama Huizinga. La prima si dedica alla scoperta del nuovo, per esempio le proprietà non aristoteliche del moto; la seconda alla riscoperta del vecchio, per esempio i classici greci in lingua originale, che fino ad allora erano noti in versione araba.
Il risultato è che all’umanista sfugge l’oggetto infinito. Lo perde, perché non lo riconosce come oggetto, pur avendolo davanti agli occhi. Succede all'umanista quel che succede all'analizzante in analisi: non vuol vedere quel che c'è. Gli psichiatri di un secolo fa parlavano di allucinazione negativa. (L'analizzante è giustificato, tuttavia, perché ha l'oggetto alle spalle). Così come non l’avevano mai riconosciuto i class
ici, ai quali l’umanista si identifica, per l’umanista l’oggetto o non esiste (soluzione anoressica) o è finito (soluzione perversa). L’opzione finitaria, fondamentalmente binaria (o 0 o 1), destina ultimamente l’umanesimo alla melanconia, come degenerazione ultima e fallimento della soluzione feticistica, di cui riconosce giustamente l’inadeguatezza … classica. (Si torni alla Montagna magica, alla diatriba tra i due umanisti, Settembrini, il letterato, e Naphta, il gesuita). In fondo, l’unica e l'autentica, la prima e l'ultima, malattia mentale dell’umanesimo è la melanconia – una malattia prescientifica in epoca scientifica. Lo testimoniano in modo mirabile le incisioni di Dürer.

Ma sulla melanconia umanistica lascio la parola a Mann, che la sa più lunga di me. Io sono arrivato al capolinea. La mia conclusione finale è che la psicanalisi ritrova l’oggetto della scienza, quindi non è malinconica. Tanto meno è umanistica.

Aggiungo solo un monito. Ritornare all’umanesimo significa resistere positivamente alla scienza in generale e alla psicanalisi in particolare. Paradossalmente, questa resistenza si esplica in psicanalisi nel modo più efficace restando all’interno di qualche formulazione medica della psicanalisi, per esempio la metapsicologia freudiana, o in generale all’interno di qualche versione umanistica della stessa. Paradigmatico in questo senso è lo junghismo, tutto dedito alla ricerca di un senso della vita psichica, che tuttavia continuamente sfugge lungo i 17 volumi delle opere del guru zurighese. E' come se Jung sapesse che, se il senso gli sfugge sempre, non troverà mai l’oggetto aborrito da ogni umanesimo: l’infinito. Scrive ventimila pagine per accertarsi che l'infinito non esiste e garantirsi così la malinconia. "Amano la propria malattia – l'umanesimo – più di se stessi", avrebbe sentenziato il maestro Freud. Tradotto: "Amano il proprio omuncolo", perciò resistono alla psicanalisi.

In realtà, si realizza un fenomeno simile alla fuga musicale: una serie contrappuntisticamente generata di variazioni potenzialmente infinita sul tema dell'infinito. Mentre si fugge dall'infinito, se ne realizza un modello. Il matematico direbbe che l'infinito ha una struttura non categorica. Non lo si può concettualizzare secondo un'unica modalità di presentazione, ma proprio "non cessando di concettualizzarlo" lo si realizza necessariamente. Paradossalmente, l'infinito è la massima creazione dell'umanesimo, che l'umanesimo si ostina a non riconoscere in nome della propria fissazione omuncolare. Detto in termini psicanalitici, l'inconscio dell'umanesimo è l'infinito. Detto in termini freudiani, l'infinito abita la rimozione originaria dell'umanesimo. Detto in termini junghiani, l'infinito è l'archetipo della cultura (civiltà) umanistica: la sua ombra o la sua polvere. In questo senso, non ho avuto tutti i torti a partire dalla congettura iniziale secondo la quale

la psicanalisi è umanistica.

Chissà cosa ne direbbe il mio amico Paulo Barone, teorico dell'età della polvere?

Resta un'ultima considerazione da proporre alla riflessione sul tema dell'umanesimo: la sua connessione con la mitologia e in generale con il genere romanzesco.

La psicanalisi non ha una concezione del mondo. Giusto, perché la psicanalisi non dovrebbe essere una mitologia, almeno in linea di principio. Poi è di fatto la mitologia dell’edipo e della castrazione, ma questo è un altro . Il punto è che la dissoluzione odierna dell’immagine del mondo è l’equivalente culturale della dissoluzione delle grandi mitologie. Infatti, la nozione di mondo è il sostegno di tutte le mitologie. Se le mitologie vanno a fondo, va a fondo l’immagine del mondo. In un certo senso la nozione di mondo è la precondizione trascendentale per pensare mitologicamente. Il mondo è l’Urmythos. E' la sincronia che sorregge tutte le possibili diacronie à venir. Detto in altri termini, nella sincronia il tempo non esiste globalmente; nella diacronia il tempo esiste localmente. L'inesistenza in toto permette di pensare l'esistenza in loco del tempo.

L’uomo immerso nel mondo, allora, è il corrispondente mitologico del piccolo uomo dentro l’uomo, fondamento del pensiero umanistico. Da qui l’inclinazione dell’umanesimo verso forme più o meno elaborate di mitologia o di grandi narrazioni. I postmoderni, che celebrano la destituzione dei "grandi romanzi", su cui si basano le civiltà, dovrebbero intonare un De profundis all'umanesimo.

*

Nell'attesa che il coro intoni il suo canto, pongo una questione secondaria – forse non tanto.

Una donna può condividere la posizione umanistica del piccolo uomo dentro l'uomo, come è icasticamente rappresentata dalla citazione di Epitteto in esergo a questa pagina?

La fantasia corre subito alla situazione della gravidanza. Una madre vive "umanisticamente" l'attesa del lieto evento? Crede veramente che ci sia un piccolo uomo dentro la donna?

O non è forse viceversa? L'uomo, nostalgico della situazione materno fetale, sogna la regressione umanistica dentro l'utero, dove lui stesso sarebbe l'homunculus della madre. Elvio Fachinelli parlava di Claustrofilia. La claustrofilia sarebbe, allora, la condizione umanistica per eccellenza: quella del letterato chiuso nella propria torre d'avorio, blindato dai classici, che in fondo erano claustrofilici quanto lui.

Se questa seconda alternativa fosse più credibile, si spiegherebbe forse il diffuso maschilismo della cultura occidentale, incarnato per eccellenza nella religione cattolica, intesa come mitologia del Figlio generato dal Padre, una volta che sia stata posta la madre come semplice utero in affitto.

Se questa seconda alternativa fosse più credibile, si spiegherebbe forse la diffusa resistenza della scienza occidentale a pensare il corpo, se non come corpo morto – in ultima analisi come il corpo del maschio dopo il coito, deprivato dell'anima, cioè del seme.

Interpellata sulla questione "umanesimo e maschilismo", Lea Melandri mi risponde:

"Penso che in questa contrapposizione così impietosa tra la "piccola anima" e il "cadavere" l'umanesimo c'entri. Ma il problema secondo me sta a monte della visione del mondo che abbiamo ereditato e che ha indiscutibilmente il marchio dell'unico sesso che si è fatto protagonista della storia. Propendo a pensare che non si tratti di una connaturata malvagità maschile, ma di ragioni profonde di paura o difesa. Come ho scritto all'inizio del mio libro (Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino 2011), a proposito della dualità corpo e polis, la riduzione del corpo a vita biologica (che è già meno crudo di 'cadavere') è (forse) il modo con cui l'uomo è riuscito a convivere con la sua radice animale, cioè con la sua mortalità.
Quanto alle donne, dal momento che hanno interiorizzato forzatamente la stessa visione del mondo, non metterei la mano sul fuoco che non direbbero le stesse cose. Mi limiterei a dire che non possono fare peggio di quanto abbiano fatto finora le culture maschili."

Un riferimento goethiano: l'homunculus di Wagner

La psicanalisi è nata umanistica. Finirà umanistica? Nasce con un'anima e finisce con una psiche. In proposito non si può passare sotto silenzio un riferimento goethiano. Wagner crea l'uomo in provetta: l'homunculus (Faust vv. 6819-8473). E' la produzione asessuata della mente maschile? No, è l'estrinsecazione ridicola dell'anima umanistica. Finirà infatti dissolta nella notte classica di Walpurga.

Da Goethe a Mann il passo è breve. Con una premessa lacaniana il si chiarisce subito.

Se l’Io è una costruzione immaginaria, la realtà, che è costituita prevalentemente da altri Io, non può essere “molto” reale. I cosiddetti romanzieri realisti non fanno altro che raccontare fette di immaginario collettivo. Con qualche eccezione più o meno riuscita.

Per esempio, Thomas Mann. Mann tenta di uscire dal romanzo realista, facendo ruotare le storie immaginarie degli altri attorno al “reale” della malattia, entità più collettiva che individuale: questo "reale" è il tifo nei Buddenbrock, il colera nella Morte a Venezia, la tubercolosi nella Montagna magica, la sifilide nel Doctor Faustus. In questo Mann è molto freudiano. Mann tenta di uscire dall’umanesimo e cade, come cadde Freud, nella medicina. La medicina “dice le cose come stanno”. Quindi è un realistico? No, è, in altra versione, un immaginario; è, come quello giuridico, un discorso a servizio del padrone. L’escamotage del ricorso alla medicina – un ricorso costante in Freud, anche quando sproloquia contro in medici, per esempio nell’Analisi laica – ha tuttavia il fiato corto, perché anche la medicina è umanistica. Infatti, concepisce la malattia come alter ego dentro l’ego. Un ego più alter che ego: non specularizzabile, direbbe Lacan. (Perciò la psicanalisi poteva essere inventata solo da un medico). La malattia è un homunculus in versione ippocratica dentro al malato; la malattia è l'anima della medicina, il suo Sé – direbbero gli psicologi.

Nella Montagna magica è descritta bene la trappola in cui lo stesso autore è caduto. La Montagna magica è il romanzo immaginario dell’impotenza di Mann, che non riesce a sortire dall’umanesimo letterario, rappresentato dall'erudito Settembrini (anche massone). Ci prova con discorsi che crede alternativi: quello religioso, rappresentato da Naphta, il quasi gesuita; quello magico-spiritistico, rappresentato da Krokowski, l'assistente medico, versato in psicanalisi selvaggia; quello del padrone, rappresentato dal personaggio di “levatura” superiore Peeperkorn, che si suicida. Ogni volta Mann ricade nella supremazia del discorso medico, quindi umanistico, rappresentato dal consigliere aulico Behrens, direttore del sanatorio di Davos. Mann non sa come uscire dall’umanesimo, di cui conosce molto bene gli aspetti proteiformi, finché non scopre l’estetica della musica. Solo con il Doktor Faustus il pulcino Mann riesce a mettere il becco fuori dal guscio delle belle lettere. In effetti, la musica non dà spazio a rappresentazioni omuncolari dentro l’uomo.

Non c'è un solo umanesimo. C'è quello omuncolare, prevalentemente letterario, che qui prendo in giro, e c'è quello serio, non omuncolare, addirittura matematico, di cui in Italia abbiamo avuto tanto gloriosi quanto sconosciuti esponenti: i Francesco Maurolico, i Luca Valerio, i Guidubaldo dal Monte, i Bonaventura Cavalieri. Segnalo ai miei colleghi lacaniani una subdola forma di umanesimo che permea le loro dottrine. L’idea di concepire l’inconscio come dell’Altro poteva venire in mente solo a un medico, meglio se psichiatra. Lacan era un umanista della peggior specie, quella logocentrica. L'homunculus di Lacan si chiamava Grande Altro. Non abitava nell'intimità dell'uomo ma nella sua "extimità". Solo fumo negli occhi. Allora, per mascherare il proprio umanesimo, Lacan giocherellava con la topologia. Voleva far credere ai suoi allievi – il suo sintomo – che non era umanista.

In realtà, considerazioni sull'umanesimo a parte, quel che manca a noi psicanalisti è un Goethe che ridicolizzi una volta per tutte la metapsicologia omuncolare di Freud, questa sì quintessenza dell'umanesimo erudito, da cui derivano gli antropomorfismi degli epigoni. Dobbiamo riconoscere che la trovata di Goethe di chiamare homunculus quella vecchia cosa che gli idealisti hanno sempre venerato come "anima" è molto witzig.

All'orizzonte, tuttavia, non si preannunciano grosse novità in questo senso. Proprio oggi all'IPA è stato eletto un presidente italiano, Stefano Bolognini di Bologna, noto in Italia per un libro intitolato L'empatia psicanalitica.

Che cos'è l'empatia?

L'empatia è il mio omuncolo che simpatizza con il tuo omuncolo. Poco più, poco meno, l'empatia è un doppio gioco umanistico tra omuncoli.

Bisogna ammetterlo.
C’è nella teoria psicanalitica una fallacia a cui pochi sfuggono: non sfugge Freud con il suo Edipo; Jung ci casca in pieno con la pletora dei suoi archetipi; sfugge in parte Lacan con il suo discorso dell’Altro. Ed è di considerare l’inconscio in termini umanistici, cioè come se fosse un piccolo uomo dentro l’uomo, sconosciuto all’uomo.
La fallacia si estrinseca e si consolida principalmente attraverso l’ermeneutica. Si interpreta quel che fa l’uomo grande secondo le intenzioni dell’uomo piccolo dentro di lui. Ma come si interpretano le azioni dell’uomo piccolo? C’è un uomo ancora più piccolo dentro il piccolo? Questa si chiama petizione di principio. L’errore sfugge perché coperto dalla retorica della metafora. La metafora copre l’ignoranza con un falso sapere. “La vecchiaia è la sera della vita”. Si ignora cosa sia la vecchiaia, ma si copre l’ignoranza con una bella immagine che convince grazie all’analogia: fondamentalmente l’analogia tra uomo grande e uomo piccolo.
Come sfuggire, logicamente parlando, a questa fallacia?

La mia proposta è di considerare l’inconscio un sapere che non si sa di sapere, ma che genera sapere. In termini leggermente più umanistici, cioè in termini di coscienza, l’inconscio potrebbe essere considerato come la condizione trascendentale della coscienza. C’è la coscienza perché c’è l’inconscio, non viceversa.

Note

(0) „Ich bin nicht immer Psychotherapeut gewesen, sondern bin bei Lokaldiagnosen und Elektroprognostik erzogen worden wie andere Neuropathologen, und es berührt mich selbst noch eigentümlich, daß die Krankengeschichten, die ich schreibe, wie Novellen zu lesen sind, und daß sie sozusagen des ernsten Gepräges der Wissen­schaftlichkeit entbehren. Ich muß mich damit trösten, daß für dieses Ergebnis die Natur des Gegenstandes offenbar eher verant­wortlich zu machen ist als meine Vorliebe; Lokaldiagnostik und elektrische Reaktionen kommen bei dem Studium der Hysterie eben nicht zur Geltung, während eine eingehende Darstellung der seelischen Vorgänge, wie man sie vom Dichter zu erhalten gewohnt ist, mir gestattet, bei Anwendung einiger weniger psycho­logischer Formeln doch eine Art von Einsicht in den Hergang einer Hysterie zu gewinnen. Solche Krankengeschichten wollen beurteilt werden wie psychiatrische, haben aber vor letzteren eines voraus, nämlich die innige Beziehung zwischen Leidensgeschichte und Krankheitssymptomen, nach welcher wir in den Biographien anderer Psychosen noch vergebens suchen.“

“Non sono sempre stato psicoterapeuta. Come tanti altri neuropatologi mi sono formato su diagnosi locali e prognosi elettriche. Perciò mi colpisce proprio che le storie cliniche da me scritte si leggano come novelle, carenti come sono, per così dire, del marchio della serietà scientifica. Per consolarmi non mi resta che attribuire la responsabilità di questo risultato alla natura dell’oggetto piuttosto che alle mie preferenze. Diagnosi locali e reazioni elettriche non hanno corso nello studio dell’isteria, mentre la rappresentazione approfondita dei processi psichici, quale ci è in genere fornita dagli scrittori, mi consente, applicando poche formule psicologiche, di ottenere una certa comprensione dell’andamento di un’isteria. Storie cliniche come questa andrebbero giudicate come psichiatriche, rispetto alle quali hanno tuttavia un vantaggio, cioè di segnalare l’intimo rapporto tra storia delle sofferenze e sintomi morbosi, che invano cercheremmo nelle biografie [psichiatriche] delle altre psicosi.” (S. Freud, “Studi sull’isteria” (1895), in Sigmund Freud Gesammelte Werke, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, p. 277). (Torna su)

(1) “Der Schatten des Objekts fiel so auf das Ich, welches nun von einer besonderen Instanz wie ein Objekt, wie das verlassene Objekt, beurteilt werden konnte. Auf diese Weise hatte sich der Objektverlust in einen Ichverlust verwandelt, der Konflikt zwischen dem Ich und der geliebten Person in einen Zwiespalt zwischen der Ichkritik und dem durch Identifizierung veränderten Ich.” (S. Freud, “Trauer und Melancholie” (1917), in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. X, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, p. 435). (Torna su)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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